lunedì 28 ottobre 2013

Die gelbe Tapete (Le papier peint jaune)



Die gelbe Tapete (Le papier peint jaune)
Da Charlotte Perkins Gilman
Regia di Katie Mitchell
Parigi, Ateliers Berthier - Festival  d’Automne 2013



Katie Mitchell, ormai nota al pubblico europeo per le sue originali regie, dà nuovamente prova della sua bravura trasferendo l’intimità e l’estraneità di una tappezzeria gialla, dalle “fantasie irregolari e sgargianti, inclini a ogni peccato artistico” in un sofisticato dispositivo scenico che scardina ogni divisione netta tra interiorità e realtà esterna.

Attualizzando nella Berlino di oggi le pagine di rovente denuncia di Charlotte Perkins Gilman, la regista trasforma il giallo cenere – apparentemente irrilevante – della carta da parati che decora la stanza in cui è reclusa Anna nel perno della sua progressiva follia.

Charlotte Perkins Gilman, in scena Anna, caduta in un’acuta depressione post partum, sarà obbligata dal proprio medico-marito a rimanere chiusa nella propria camera da letto in assoluto riposo, lontana da qualsiasi contatto col mondo, precipitando così in un delirio solitario.


Così come in “La signorina Julie” ad Avignone, la tecnologia è qui al centro della produzione e non un semplice sfondo accessorio. Le telecamere seguono infatti la donna negli spazi angusti della stanza in cui è confinata e amplificano la sua progressiva alienazione.

Katie Mitchell moltiplica le piste visive e forza i diversi piani di percezione e lettura della pièce. Non si limita solamente all’installazione di un enorme schermo che, sovrastando gli spazi della casa, proietta a grande scala il delirio di Anna, o “all’incursione” indiscreta dei cameraman nel perimetro interno ed esterno della scena, ma installa a vista una cabina di regia– in cui rumoristi, tecnici del suono e montatore video operano in tempo reale – e una cabina in cui Ursina Landi doppia, o meglio dà voce, al flusso di coscienza ininterrotto e precipitato della donna, mentre a Judith Engel muta sono affidati in scena i suoi gesti, le sue azioni, le sue emozioni. Corpo e voce vengono magistralmente dissociati.









Questo dispositivo schizoide gioca sulla sovrapposizione e sulla simultaneità in verticale, in orizzontale e trasversalmente tra la realtà oggettiva e quella percepita. Le immagini proiettate sullo schermo si aggiungono infatti a quelle della scena, offrendo angolature diverse, piani ravvicinati e moltiplicando lo sguardo dello spettatore, se non addirittura sostituendolo, là dove questo non può arrivare.

Allo schermo inoltre è affidato da una parte il compito di mostrarci a intermittenza, durante tutto il corso dello spettacolo, scene amatoriali che riprendono Anna, Christoph e il figlio Max in un idyllium post partum sempre più lontano e stridente.


Dall’altra parte macchine ed espedienti cinematografici ci avvicinano sempre più alle allucinazioni della protagonista. Grazie agli effetti di dissolvenza vediamo i fantasmi che abitano la sua carta da parati. Una sorta di gigantografia di tutti i suoi fantasmi.
Eppure questa illusione allucinatoria viene subito, quasi clinicamente, smontata. Lo spettatore vede queste figure oniriche apparire e magicamente dissolversi tra le pareti  ma allo stesso tempo assiste alla costruzione di questa illusione ottica.


L’esibizione di tutti questi dispositivi, dell’intera “officina scenica” anche se inizialmente sembrerebbe mirare a interrompere la sospensione dell’incredulità, finisce invece per confondere talmente i piani di costruzione della scena da proiettare la platea nell’intimità di Anna, nel suo presente dilatato e schizoide.

La regista inglese ancora una volta sa dar volto alla femminilità nelle sue sfumature più fragili e inattese e rende così perentoria la frase finale di Anna che si dichiara ormai libera da qualsiasi prigionia.

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