mercoledì 9 aprile 2014

Gravity

Ormai, il novantanove per cento dei film che guardiamo viene dagli States. Volenti o nolenti, succhiamo il loro modo di vedere senza accorgercene, senza nemmeno avere più il gusto di preoccuparcene. Tuttavia, si possono trovare dei validi significati nascosti, dei second meanings, anche in filmetti usa e getta. Basta avere gli occhiali giusti. E’ il caso di un film di fantascienza, Gravity, chiaramente pensato e costruito per strabiliare ancora una volta lo spettatore con gli ultimi prodigi della computer graphics e i suoi speciali effetti. La storia è molto semplice: tre astronauti vengono assaliti da uno sciame di polvere o spazzatura spaziale (detriti o rimasugli di apparecchiature elettroniche disperse nello spazio da decenni) , ammazzandone due e lasciando alla deriva l’ultima, una donna. Tutto qua. E non c’è che dire: gli effetti speciali susciteranno anche questa volta il rituale “wow!”. Se ripercorriamo,però, la storia nel dettaglio, il film suscita argomenti di una certa importanza. La donna, uno scienziato, anni addietro, aveva perso sua figlia, per una banale caduta all’asilo. “Hai perso una figlia: cosa c’è di più doloroso? Che senso ha ormai la vita?”, gli dirà il collega. Il suo lavorare nello spazio aveva assunto ormai le dimensioni “fisiche” di una reale fuga dal mondo: lontano da tutto, lavorando nel silenzio profondo, nell’oscurità fluttuante e muta del cosmo che inizia ad appena 400 chilometri sopra le nostre teste. Un’oscurità che dal cuore esplode nell’esterno nero, riempendone solo una piccola parte. Un’oscurità –muro portata dentro, insormontabile, invalicabile, nemmeno dall’immensità del cosmo e del pianeta.


Ma accade un imprevisto. Un terribile imprevisto. Tutto è di nuovo in pericolo. Ritorna l’assurdo della vita: la morte. Di fronte all’assurdo, ora, persi nello spazio, nel luogo più impensabile, in quel mare asciutto di gente, solo un compagno di lavoro si sacrificherà per lei. Un sacrificio, il suo, pieno di speranza, fatto, direi, con ilarità, con lucidità, fermezza e direi anche letizia (ruolo affidato a Georges Clooney) . Grazie a questo sacrificio, la giovane astronauta ritornerà con i piedi sulla terra. E, riatterrata, guarderà la terra non più con delusione o con lo sguardo dei sopravvissuti, ma con quello sguardo del naufrago che ritorna a casa. Mi ha colpito anche la scena finale, che ai cultori dell’SF non direbbe niente (gli effetti speciali sono ormai spariti, non volano più mezzi super moderni. C’è solo la quiete di una spiaggia.).

Si vedono due occhi guardare il cielo da cui si è caduti che, in questo caso, trattasi di una caduta addirittura “fisicamente reale”. Come per dire: il cielo non è più mio nemico, ma mi ha riportato alla terra. Ella era fuggita dalla terra, dalla madre terra, madre dell’umanità, madre da cui ognuno fugge per cercarne il senso. E lontano dalla terra ha scoperto il senso di ritornarvi. Non so perché la storia mi ha fatto pensare alla storia di altri due grandi uomini che, in un modo o nell’altro, hanno compiuto la stessa parabola, sia in senso fisico che metafisico. Il primo è Antoine de Saint Exupéry che, dapprima, visse, da un punto di vista letterario e umano, molto poeticamente tra le nubi e l’estasi del volo, per finire poi di nuovo tra gli uomini, a terra, non più nel deserto di sabbia, ma nel deserto fatto di uomini, che diventano non più estranei ma compagni. Un’altro “fuggitivo” è stato Charles de Foucauld, anch’egli in principio eremita nel deserto, per amore a Gesù. Anch’egli, però, gradualmente, seguì la stessa parabola che sale fino al culmine per poi discendere di nuovo al luogo di partenza: il mondo degli uomini, l’unico che ci è dato per capire noi stessi.

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